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PAROLE DA RIDERE: Situazione di vacca, di Carla Pavan

SITUAZIONE DI VACCA di Carla Pavan.

L’altro giorno un mio amico raccontava come una gran rottura quando alla visita militare il medico tocca i testicoli e allora io pensavo a tutte le visite ginecologiche alle quali noi donne ci sottoponiamo periodicamente, in cui non è che vieni proprio solo tastata in superficie! Per prima cosa prendiamo in considerazione il fatto che ti devi mettere a gambe larghe su una specie di lettino da tortura e sistematicamente, appena ti siedi vagamente imbarazzata, il medico ti dice: “Venga più avanti!” Cioè vuole proprio che tu gliela sbatta in faccia. Comunque ormai ci siamo abituate e siamo capaci di scherzare col medico, rispondere al telefonino, leggere una rivista… Ogni tanto mi fumerei anche una sigaretta mentre lui sta rovistando con ogni tipo di strumento dentro al mio utero! Una volta invece mi è capitato di dover fare un esame batteriologico. In quel caso mi sono veramente sentita in una situazione di vacca. Ma non nel senso “situazione di merda”, proprio nel senso della vacca, la bestia. Allora, arrivata in ospedale capisco subito che i medici sanno che siamo tutti dei deficienti. Chiedo al gabbiotto d’ingresso dove si trova la sala per fare l’esame e la guardia mi dice: “Segua il percorso blu.” E allora mi metto a camminare su questa linea blu come uno stupida equilibrista sfiorando con le spalle le altre persone, ognuna che segue diligentemente la sua linea colorata. In sostanza faccio tre passi, giro a destra e mi trovo ad andare quasi a sbattere contro la porta della sala prelievi. Non poteva dirmi: “E’ la prima porta a destra, proprio quella lì che se si sporge la vede!” Comunque mi affaccio e vedo questo piccolo corridoio con una fila di sedie tipo cinema dove sono sedute una serie di donne di ogni età che fissano della porte numerate. Poi ne vedo una come me che si guarda attorno spersa cercando una faccia amica per chiedere informazioni. Io, che mi sento più “figa” di lei, vado verso la prima porta dove c’è scritto ACCETTAZIONE, ma mentre sto per bussare la mia mano viene frenata da una specie di scossa, perché leggo un enorme cartello che sembra lampeggiarmi davanti: “Non bussare ASSOLUTAMENTE!” Allora mi guardo intorno con la stessa aria spersa dell’altra e anche un po’ imbarazzata, grattandomi la testa con insistenza per far capire che non stavo per bussare, ma solo mi prudeva la testa! Poi una voce che esce da un altoparlante chiama una persona: “La signora Tal dei Tali nel gabbiotto numero 3.” Una si alza e sembra sollevata e quasi felice, mi sembra addirittura di vederla scodinzolare mentre sparisce dietro ad una delle misteriose porte numerate. Finalmente si fa avanti un’anima gentile, anche se un po’ crudele perché prima ha aspettato di vedere apparire un’espressione di angoscia su di noi. Comunque inizia a spiegarci un po’ come funziona. E’ seduta proprio vicino alla porta di ingresso come se se la fosse scelta apposta quella sedia per potersi godere lo spettacolo dell’attacco di panico di ogni nuova arrivata. “Bisogna aspettare che da quella porta esca l’infermiera che vi chiederà l’impegnativa.” Ci dice indicando la porta con il divieto lampeggiante. “Dovrebbe quasi essere il momento. Esce ogni tanto così accumula un po’ di gente. Risparmia tempo.” “E poi?” Mi verrebbe da chiederle ma, in quel momento, viene chiamata dall’altoparlante: “La signora tal dei tali al gabbiotto numero uno.” E anche lei sparisce in una delle porte numerate. Così mi siedo al suo posto e aspetto. Mi rendo conto che ad un certo punto ho assunto l’espressione delle altre: ebete sguardo verso le misteriose porte numerate. Finalmente dalla porta col divieto esce un’infermiera cicciona e arcigna: “E’ arrivato qualcuno di nuovo?” Io e la mia compagna di sventura ci precipitiamo a dirle che abbiamo prenotato, ma lei ci zittisce subito facendoci capire abbastanza chiaramente che non gliene frega niente di quello che possiamo dirle e ci strappa praticamente le impegnative di mano. Poi più veloce della luce sparisce dietro alla porta col divieto. Non ci resta che ricominciare a fissare le porte numerate. Così ci risiediamo sconfitte. Finalmente una fuoriesce dalla porta numero quattro. Iniziavo ad avere paura che ci fosse qualcosa come una camera a gas dietro a quelle porte, perché vedevo solo donne entrare ma nessuna uscirne, inghiottite dal mistero dell’esame batteriologico. Dopo un bel po’ di altre chiamate con altoparlante, donne inglobate dalle porte numerate e nuove facce sperse affacciate alla porta d’ingresso, l’infermiera cicciona ma velocissima, esce dalla porta col divieto e mi dice di seguirla. Mi affretto perché è veramente veloce e mi sta per richiudere la porta in faccia. Così mi ritrovo in questa stanzetta con lei e con una dottoressa che comincia, ancora senza spiegarmi niente, a farmi delle domande piuttosto personali e intime. “Quanti rapporti ha avuto nell’ultima settimana?” “E farti i cavoli tuoi? Ma non dovevo fare un prelievo?” “Partners nell’ultimo mese?” Poi incomincia a raffica: “Negli ultimi due mesi? Negli ultimi quattro? Negli ultimi sei? Negli ultimi otto?” Mi piacerebbe iniziare a tergiversare e a cambiare argomento, ma purtroppo la guardo sconsolata e comincio un elenco infinito che le fa piano piano spalancare la bocca in una smorfia prima di sorpresa, e poi di disgusto. E allora sempre di più vorrei condire di particolari piccanti un conto infinito di uomini per farla diventare verde d’invidia. Ma a un certo punto mi ferma: “E’ sufficiente” mi dice. “Bé” penso io “in realtà tra tutti questi di sufficienti ce ne sono ben pochi!” Comunque finita la raffica di domande quando arriva all’ultima: “Usa droghe?”, anche se non è vero vorrei dirle: “Si, hai una canna o qualcos’altro per caso?” Mi sento snervata come se la gestapo mi avesse fatto il terzo grado scavando proprio nelle zone più delicate e una bella canna, sì, me la fumerei. Finalmente mi accomodo fuori in attesa di essere chiamata per il macello. Adesso che ho subito l’umiliazione capisco finalmente lo sguardo inebetito delle altre in trepida attesa di mettere fine a questa tortura o forse anche loro stanno cercando di ricordarsi dell’ultimo rapporto minimamente soddisfacente? Guardandole meglio una a una c’è chi ha un’aria perplessa, chi schifata, chi sognante, chi addirittura arrossisce un po’. “E si, lo so io a cosa state pensando!” La chiamata dall’altoparlante arriva: “Gabbiotto numero uno” Così finalmente apro la porta misteriosa. Mi ritrovo in una specie di sgabuzzino con un’altra porta di fronte a me. Mi sembra di essere in una matrioska, quelle bambolette russe una dentro l’altra, perché le porte non finiscono mai! Le due pareti laterali sono tappezzate di cartelli con le istruzioni: “Togliersi i collant e le mutandine. NO LE SCARPE!! E aspettare.” Allora eseguo e mi ritrovo nuda dalla vita agli stivali. E’ una sensazione strana, un po’ come quando hai lasciato a casa gli orecchini e ti tocchi di continuo il lobo oppure hai dimenticato l’orologio e ti guardi in continuazione il polso come una rincoglionita. Cerco di distrarmi da quell’idea e così mi guardo attorno fischiettando. Ma una monotonia: i cartelli su tutte le pareti sono tutti uguali, nessuna fantasia, dovunque sempre e solo: “togliersi i collant e le mutandine NO LE SCARPE!! E aspettare”, “togliersi i collant e le mutandine NO LE SCARPE!! E aspettare” Ma di che cosa avranno paura, di sentire puzza di piedi? Finalmente mi aprono l’altra porta e mi ritrovo in un grande stanzone suddiviso in settori da dei separé bianchi. In fondo vedo un lungo tavolo con microscopi e medici che scrutano provette. Un brulicare di medici e infermiere che passeggiano su e giù parlando dei fatti loro. Di fianco a me vedo l’ombra cinese di un’altra donna stesa sul lettino da tortura. Così visto che nessuno ancora mi dice nulla mi stendo anch’io. Solita posizione da “te la butto in faccia.” Due infermiere mi si avvicinano con dei lunghi cotton fioc e cominciano a mettermeli dentro sempre senza dirmi nulla. Una ne passa uno pulito all’altra, l’altra intinge e glielo ripassa, ma nel frattempo una sta raccontando all’altra quanto è stronzo suo marito che non la porta mai a cena fuori e lei detesta cucinare, eccetera e la vedo alterarsi e distrarsi sempre di più, volteggiando in aria i cotton fioc come se fossero delle bacchette da direttore d’orchestra e visto che è quella che intinge, temo che, se si distrae troppo, possa sbagliare mira e magari andare troppo a fondo togliendomi l’unica verginità che ancora mi è rimasta. Per fortuna va tutto bene. Poi passano i cotton fioc a uno di quelli al microscopio e lo sento distintamente dire, mentre sta analizzando qualcosa di mio: “Ah bellissimo, intere società di batteri ci sono qua dentro!” Allora mi allarmo e provo a chiedere spiegazioni, ma, roboticamente e senza neanche guardarmi, una delle due mi dice: ”Vada. Avrà gli esiti tra quindici giorni” Io sto lì un po’ inebetita ancora sul lettino. “Bé vada no? Cosa aspetta?” E così mi rialzo ritorno nel mio sgabuzzino e mentre mi sto rivestendo mi rendo conto che le istruzioni al contrario non le hanno messe, tipo: “Rimettersi collant e mutandine. Ma prima però togliersi le scarpe e poi rimettersele. NON USCIRE SCALZE!” E così se io fossi robotica come loro me ne starei lì ad aspettare nuda dalla vita agli stivali.

PAROLE DA RIDERE: Il Marione, di Carla Pavan

IL MARIONE di Carla Pavan
Una volta ho conosciuto uno… conosciuto piuttosto a fondo intendo. Diciamo che stavo attraversando un periodo in cui mi dedicavo con una certa costanza alla conoscenza approfondita dell’uomo, lo chiamerei il mio periodo antropologico del pene. Comunque per farla breve questo tizio, il Marione, era un tipo piuttosto belloccio e piuttosto richiesto anche per via del fatto che all’epoca calcava il palcoscenico. Non il grande mondo dell’arte, ma i piccoli palcoscenici di paese che comunque erano sufficienti a fargli acquisire una certa fama di quartiere e perciò un certo fascino agli occhi femminili, e il Marione di conseguenza ne traeva i suoi vantaggi. Diciamo però che il Marione era assolutamente un tipo democratico: lui non diceva mai di no. Magari aveva una sua graduatoria interna e perciò c’erano donne che si mettevano in coda, ma prima o poi il turno tanto atteso arrivava. Di recente ho scoperto che una mia amica ha finalmente ottenuto il tanto desiderato incontro col Marione. Intanto premetto che questa amica non è che proprio stesse lì ad aspettare, perché nel frattempo anche lei attraversava un periodo antropologico del pene, da sempre per la verità. Già Olivia da quando la conosco non ha mai smesso la sua “ricerca scientifica”, è stata sicuramente più costante di me. Ma insomma una sera la incontro col Marione. Io ero con tre amiche e Olivia si avvicina a noi col Marione. Già da lontano avevo capito tutto, e in fondo non è difficile capire cosa si agita nella mente del Marione quando lo si vede con una donna, il pensiero è sempre lo stesso e l’espressione sorridente anche. Comunque Olivia, come una ricercatrice fiera delle sue scoperte, senza neanche quasi salutarci ci dice: “Ma lo sapete che il Marione c’ha un attrezzo davvero grosso?” e ride. Si, penso io, certo che lo so. E intuisco dai sorrisetti delle mie amiche che anche loro ne sanno qualcosa. Il Marione sembra fiero di tutto ciò ma si schernisce dando di gomito a Olivia “Suvvia dai non esageriamo!”. E lei allora ricalca la mano, forse pensando che non abbiamo capito o forse, chissà, pensa di scandalizzarci. “No, no, veramente, un troncone, un grosso fustone, una specie di bronzo di riace tra le gambe, insomma avete capito no?” Noi annuiamo senza dire niente, in realtà non vorremmo metterla in imbarazzo facendole notare che noi lo sappiamo da anni e lei invece ha dovuto fare un po’ di coda! Comunque poi non resisto e le dico: “Ma Olivia non ti sei mai chiesta perché lo chiamano il Marione?” E già, se si chiamasse Marietto, Mariuccio o Marino forse non farebbe sballottare il suo pilone così tanto in profondità nel corpo e anima di tante donne! E’ chiaro che se gli hanno dato quel soprannome un motivo c’è! E’ per questo che a un certo punto della mia ricerca antropologica ero diventata un po’ diffidente rispetto ai soprannomi col diminutivo, cioè non sempre, ma in certi casi si. Per esempio se mi presentavano un Paolino basso basso, la cosa mi sembrava meno sospetta e allora si poteva anche fare, ma quando mi presentavano un Franceschino altezza nella norma o addirittura spilungone, eh no, allora c’era sicuramente la fregatura, lo salutavo appena e poi mi dedicavo alla ricerca del Marione di turno. Anche se poi non è sempre così automatico, perché in fondo, dentro un certo range, ci sono poi tanti altri fattori che contano. Per esempio mi ricordo che il Marione, per tornare a lui, anche se ce l’ha grosso non è che lo usi poi così bene. Cioè è una specie di martello pneumatico: il Marione non ti penetra, ti scava una galleria sotterranea. Quando finisce il suo trum trum trum ritmico e profondo il Marione ti lascia come svuotata, ti si è aperta una voragine e inizi ad avere paura che gli spifferi della finestra socchiusa di fianco al letto ti travolgano da sotto uscendoti dalle orecchie. E così credo che quasi tutte noi alla fine della sua mitragliata invece di lodarlo per la sua evidente prestanza fisica gli chiediamo: “Scusa Marione, puoi chiudere la finestra, sento un po’ di arietta che mi sta entrando nelle ossa!” Anche se per la verità non è proprio nelle ossa che sta entrando!
Ricordo che una volta mi aveva trapanato così a fondo che il giorno dopo mi sembrava di andare in giro come una cavallerizza appena scesa da una lunga cavalcata e temevo di sedermi perché mi sentivo una tale voragine che avevo paura di risucchiare addirittura la sedia. Ma lo cosa più penosa fu che proprio quel giorno incontrai un bello straniero, e anche io allora ero piuttosto assidua nella mia ricerca antropologica, e non volevo certo perdermi un soggetto così interessante. E invece dovetti rinunciarvi, mi sentivo laggiù in basso una specie di galleria pulsante che se avesse permesso ad un altro treno di passare sarebbe potuta esplodere. E così mi rassegnai ad andare a casa da sola e rinfrescarmi le idee con qualche lavaggio freddo alla lavanda. Comunque col Marione rimaniamo tutte in ottimi rapporti. Cioè intendo dopo, quando ti passa la voglia degli incontri con lui, che assicuro, prima o poi passa a tutte. E la cosa bella è che anche lui ne è felice, perché il Marione non si vuole assolutamente concentrare su una sola, no, l’ho già detto è uno democratico, e poi non si può far creare l’ingorgo, lui prima o poi deve far scorrere la coda! Forse anche per questo che l’altra caratteristica del Marione è quella di essere veloce. Ma vi assicuro che in questo caso non è poi così male. Certo in genere non è un pregio, ma provate a stare sotto un martello pneumatico per ore e poi voglio vedere se non pensereste in continuazione: “Speriamo che arrivi a destinazione sennò tra un po’ mi apre un canale diretto con la bocca!” E poi il Marione è veloce in tutto, è un uomo d’azione. Potremmo quasi chiamarlo il nostro John Wayne di quartiere. Una volta mi si è allagata la casa e stavo rientrando proprio col Marione. E così lui deciso, ha preso straccio e scopone e in quattro e quattr’otto, mi ha asciugato tutto. Rimasi veramente stupefatta dalla prontezza e dalla velocità con cui mi risolse il problema. Poi ci dedicammo alle solite cose e fu veramente rapido anche lì. Infine mi disse che doveva assolutamente andare. Credo che gli stesse venendo un po’ di panico, forse perché ci stavamo incontrando un po’ troppo spesso. Io non esitai a dirgli che andasse pure, ero stanca e volevo dormire e poi non c’era problema , il Marione lo sapeva, che con me poteva stare tranquillo. E allora lui si rilassò un po’ e disse: “Hai ragione, in verità sono stanco anch’io, quasi quasi prima dormo un po’.” Che nel linguaggio del Marione, lo sapevo bene, voleva dire: “In fondo le altre possono aspettare anche fino a domani.” Lì capì che il panico era relativo all’ingorgo. Ma poi quando lo vidi rannicchiarsi e cominciare a tirarmi via le coperte, il panico venne a me. Non volevo che il Marione mi russasse nelle orecchie, non mi aveva già martellato abbastanza? E poi insomma, il Marione non sarebbe più lui se non continuasse a percorrere le autostrade inguinali di più donne possibili. E così lo apostrofai severa: “Marione, che dici, non mi sembri più tu!” E poi con una certa dose di cattiveria toccai l’unico tasto che da sempre lo turbava molto: “Starai mica invecchiando?” Al che il Marione mi guardò torvo e prima che potessi accorgermene era già vestito sulla porta e mi stava salutando. Sembrava proprio John Wayne, pronto per una nuove missione da eroe: “Hai ragione. Vado”. E fuggì più veloce di Furia (il cavallo del west che beve solo caffé). “Buona notte Mariuccio” pensai io. Quindi spensi l’abatjour e mi voltai di lato per perdermi in un dolce sonno.