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Premio PAROLE DA RIDERE 2012 a Diego Carli

Teatro Astra San Giovanni Lupatoto (VR) – Consegna Premio PAROLE DA RIDERE 2012 al vincitore Diego Carli nel corso del terzo “Gala del Cabaret Lupatotino”, realizzatoParole da Ridere 2012 - Diego Carli in collaborazione con il FESTIVAL NAZIONALE DEL CABARET. Il suo racconto è pubblicato sul sito http://www.festivalnazionaledelcabaret.it, alla pagina “Parole da ridere”.

GALA CABARET LUPATOTINO 2013

locandina Gala Cabaret Lupatotino 2013giorgiacybPer il terzo anno consecutivo sabato 26 gennaio 2013 alle ore 21:00 presso il cinema teatro Astra di San Giovanni Lupatoto (Verona) torna in scena il GALA DEL CABARET LUPATOTINO, allegra serata spettacolare realizzata con la collaborazione del FESTIVAL NAZIONALE DEL CABARET (Torino) e mediante la partecipazione di un nutrito numero di cabarettisti provenienti da tutta Italia.: Diego & Anna (Trieste), Giovanni D’Angella (Pavia), i 4 Giusti (Palermo), Mauro Bellisario (Roma), la Maffucci (Torino), Mario Tarallo (Genova), Omar Pirovano (Monza), Samuel Brocherio (Milano), Nicola Trocchia (Verona), Gabriele Savasta (Trieste), Marco Capretti (Roma).
Presenteranno la serata Giorgia De Vecchi (lupatotina, ideatrice dell’evento insieme a Claudio De Vecchi e Salvatore Cristofaro) e Max & Scossa (la divertente coppia di Cyborg fra i protagonisti della trasmissione comica televisiva “Made in Sud” di Raidue).
Anche quest’anno la serata sarà rivolta soprattutto ai ragazzi dell’Associazione “Amici del Tesoro” di Radon, nata per fornire sostegno e collaborazione al servizio diurno Ulss.20 Il Tesoro, aperto nel gennaio 2004 e destinato all’accoglienza di persone disabili.
Al termine dello spettacolo Mauro Giorcelli, ideatore e direttore del FESTIVAL NAZIONALE DEL CABARET premierà Diego Carli (del duo Diego & Anna) quale vincitore del concorso nazionale di letteratura umoristica “Parole da Ridere 2012”, iniziativa collaterale del Festival.
Si ricorda che il GALA DEL CABARET LUPATOTINO è realizzato grazie alla sponsorizzazione di società ed aziende veronesi e che i biglietti d’ingresso sono disponibili esclusivamente ad invito.
Per informazioni rivolgersi a Giorgia De Vecchi: tel.3470021606.

Risultati concorso nazionale di letteratura umoristica PAROLE DA RIDERE 2012, organizzato dall’associazione Il Coro/Cabanews in collaborazione con il FESTIVAL NAZIONALE DEL CABARET

1° classificato: DIEGO CARLI (Verona)
Titolo: “Anna e Marco (a Dalla piacendo)”

“Che noia l’Ikea.”
Marco se lo ripeteva tutti i giorni da quando lo avevano assunto presso la sede di Carugate.
Montava alle otto e smontava alle venti. Sempre lo stesso tavolino.
“Che noia l’Ikea.” Marco se lo ripeteva tutti i giorni.
“Venga Baraldi!” Gli aveva detto il capo sede il giorno del colloquio: “Prenda quella seggiola e si sieda, le dò tre minuti.” Marco s’era guardato attorno ma di sedie in quell’ufficio, manco l’ombra. Solo un cacciavite a stella, venti viti sulla scrivania e un pacco piatto a terra. Volevano verificare l’attitudine al lavoro fin da subito. Non si perse d’animo, in due minuti e quarantanove secondi scartato il pacco, col cartone costruì una sedia in scala uno a uno quasi perfetta e facendo finta di sedervi sopra pensò “Alla fine quell’inutile corso di mimo e origami che ho frequentato due anni fa è servito a qualcosa.”
Il capo sede per tutto il tempo lo osservò con la stessa espressione di un guerriero cinese in terracotta seppellito da duemila anni per poi aggiungere muovendo solo il labbro inferiore a mò di pupazzo da ventriloquo: “Baraldi. Non riesco a distinguere in lei la sottile linea che separa il genio dallo stronzo.” “Con linea intende forse una serie di punti adimensionali ravvicinati che si susseguono l’un l’altro?” chiese Marco. Assunto per senso creativo nell’affrontare un problema, ma ben presto Marco si accorse che l’unica fantasia che ti puoi permettere, se sei un magazziniere, è pensare a come sarebbe singolare fare le impennate col carrello elevatore.
“Che noia l’Ikea.” Marco ormai quel tavolino lo montava ad occhi chiusi e con gli occhi ben serrati cominciò a pensare: “Billy. Skoglund. Perché mai dare ad una libreria il nome di un cane ed a un divano letto quello di un attaccante dell’Inter degli anni cinquanta?” C’era un senso di precarietà in tutto questo, di incertezza, di imprecisione. Ecco, gli svedesi Marco se li immaginava così, come i contenuti dei sacchettini nel kit di montaggio: pratici e moderni ma alla fine manca sempre qualcosa; certo non lo si può definire un popolo di grandi artisti pensava, per esempio, metti a confronto un quadro fiammingo e un quadro svedese: Il primo ci passi delle ore davanti, il secondo al massimo ci passi attraverso e non è una differenza da poco. Un senso di logica instabile. Persino il cibo non è chiaro: Un popolo si distingue anche da quello che mangia; un tedesco è preciso, lo si vede dal würstel: è un cibo che sai dove inizia e sai dove finisce, l’italiano è incasinato, basti guardare gli spaghetti: non si capisce un cazzo, ma gli svedesi sono degli indecisi: o salato o dolce che ci vuole? E allora perché abbinare le polpette con la marmellata? Non c’è logica. Ma forse una logica c’è dato che le polpette escono dal tuo corpo con la stessa dimensione con cui vi sono entrate, probabilmente la marmellata fa da lubrificante. Questo comunque, non toglie i dubbi su una vita di incertezze. Pensare che i loro antenati, i Vichinghi, furono guerrieri e navigatori. Andarono persino in America, con le loro navi montate in una domenica pomeriggio senza usare un chiodo e dal nome di una scarpiera: “Drakkar”. Hanno sempre avuto la fissa del franchising, togliere il lavoro agli irlandesi apatici e darlo ai pellerossa che costavano meno. Solo vai a spiegare tu ad un Dakota che è sbagliato vivere dentro a delle tendine che in Svezia le trovi solo al reparto bambini, spiega ad un Cherokee il concetto “con un minimo sovrapprezzo un operaio specializzato partirà da Stoccolma al Main e ti monterà comodamente un intero villaggio in legno direttamente a casa tua.” Infatti i nativi americani non apprezzarono l’idea del “fai da te” e li ricacciarono in mare.
E fu così che Marco, assorto dai suoi pensieri estremamente filosofici, non si accorse del ticchettio continuo di due dita sulla spalla da ormai svariati secondi. Dopo il quarto “mi scusi?” Marco si girò con la flemma di un bradipo boliviano convinto che nulla sarebbe mai accaduto di così straordinario nell’angolo dedicato ai tavolini da sei euro e invece, Lei.
Anna non era né bella, né brutta. Né alta né bassa. Né magra né grassa. Né elegante né sciatta. Era solo né. La sua vita era costellata di né. Da adolescente non aveva neppure avuto la possibilità di avere il problema di sentirsi diversa e inadeguata tanto era simile a tutte le altre ragazze medie del mondo. Lei era media. Se la media avesse avuto una percentuale lei stava giusto nel mezzo. Facendo una media di tutte le medie che mediamente stanno nella media, lei era la media assoluta. E a questo Anna ci si era abituata da tempo.
Orfana di padre, con una madre ossessiva e una sorella convulsiva, un lavoro al call center e una storia affettiva alle spalle arida quanto il deserto dei Gobi, Anna aveva finalmente deciso dopo sei anni di andare a vivere da sola ma ancora non aveva detto nulla a casa rimandando all’infinito la decisione per evitare di vedere l’ennesima scena isterica di sua madre che tenta di suicidarsi con le Air Vigorsol, convinta che se uno scoiattolo ne mangia una e scorreggia montagne di ghiaccio, lei con un pacchetto intero sarebbe morta con gli organi interni completamente congelati. Non aveva neppure accennato a quel suo ragazzo, l’unico che avesse mai avuto, con il quale perse la verginità una sera qualsiasi di ottobre, in un parcheggio da Trony, non per merito suo ma della leva del cambio della Smart che è una macchina studiata per altri tipi di prestazioni, basta guardare il libretto. Risultato: una sera buttata al pronto soccorso, sei punti, due antibiotici e chi sé visto sé visto. Una cosa sola aveva che manco lei sapeva di avere: una luce negli occhi che ti perforava l’anima come una punta del dieci per lasciarti un buco sbagliato nel muro della tua vita e che, hai voglia a riempirlo col gesso: si noterà sempre.
Anna fece questo effetto a Marco. “Mi scusi, ho preso la cucina, una libreria, il letto e un tavolo ma non riesco a caricare tutto da sola, non è che per caso mi darebbe una mano lei?”
Marco la osservò come si osserva una mensola storta, buttò un occhio al carrello sofferente sotto un muro di pacchi piatti e senza dire una parola spinse il tutto verso il parcheggio. “Lei è un tipo di poche parole non è così?” disse lei, Marco sbuffava facendo gimkane tra le auto in sosta, “Non è semplice trovare tipi gentili al giorno d’oggi, per fortuna esistono ancora i cavalieri, anche senza cavallo voglio dire, cioè con il termine cavaliere s’intende uno che ha un cavallo è chiaro, ma tipi come lei, mi capisce, che pur senza cavallo fanno i cavalieri non se ne trovano spesso e trovarne uno fa piacere, cavallo a parte. Non so se mi spiego.” Pausa. “Magari lei veramente ce l’ha un cavallo.” Marco girò un occhio solo nella sua direzione, l’altro faceva da navigatore. “Oddio che stupida che sono.” E arrossendo Anna puntò lo sguardo verso l’asfalto bagnato. Lui, guardando la macchina di lei, una Ford Ka, pensò che l’unica frase intelligente pronunciata in tutto quel percorso era “Oddio che stupida che sono.” E non fu l’unica cosa che pensò. Sembrava che i suoi pensieri uscissero dalle orecchie sotto forma di fumo bianco: “Ma questa stronza come pensa di caricare tutta sta roba su una macchina del genere?” Poi si lasciò sfuggire questa frase: “Anche ammesso avesse il portapacchi, non ci possono stare trentadue pacchi su un portapacchi, se ci fosse il portapacchi! Ma il portapacchi non c’è e sarebbe comunque un pacco trasportare questi pacchi!” e si sistemò il pacco. Lo disse talmente ad alta voce che metà del parcheggio, senza rivolgere uno sguardo ai due, annuì con un cenno della testa. Uno alzò anche le sopracciglia in segno di resa davanti ad un’ovvietà. Per Anna fu come sentirsi osservati facendo capolino da un pentolone per cannibali, allora disse con falsa sicurezza. “Beh la pubblicità su quel cartello dice ‘Se fai da te risparmi, Porta tu stesso i mobili a casa. Così puoi godere subito dei tuoi acquisti e risparmiare’, non è cosi?” Marco sbottò “Si ma ci vuole un mezzo adatto al volume di materiale da trasportare altrimenti lo facciamo noi con un sovrapprezzo a partire da ventinove virgola ventiquattro euro, entro quattro giorni a casa tua!” Marco fu tentato di mollala lì e ritornare al calduccio del magazzino ma lei ritirò fuori il trapano con la punta del dieci e perforò nuovamente con lo sguardo il muro della sua resistenza dicendo: “Ed ora che faccio? Non posso permettermi di spendere ventinove virgola ventiquattro euro in più.” Passarono trenta lunghissimi, interminabili, geologici secondi, nel frattempo Marco aveva già stimato il costo del trasporto intorno ai duecentoquarantasei virgola ventiquattro euro ma non disse nulla: stava tentando di mettere il gesso della ragione nei buchi del muro dei suoi sentimenti. Ma si vedevano, eccome se si vedevano. Non era da lui fare colpi di testa. Eppure la frase gli uscì dalla bocca a sua insaputa: “E va bene. Finisco il mio turno alle otto, aspetterò che tutti siano usciti per non dare nell’occhio, caricherò i pacchi sul furgone e glieli porterò a casa sua, le monterò tutti i mobili ma entro mezzanotte devo riportare assolutamente il furgone alla base, se siamo fortunati nessuno lo saprà.” Poi a denti stretti aggiunse “Ma che cazzo sto facendo?” Era troppo tardi. Anna non smetteva più di saltellare e ringraziare, ringraziare e saltellare. “Io, non so proprio come sdebitarmi ah, intesi, lei è mio ospite questo è il minimo, per la cena intendo, faccio tutto io lei non si preoccupi. Adesso che ci penso non ho la cucina in effetti perché è in questo pacco. Allora che si cucina dirà lei? Non si cucina. Ma l’ho invitata a cena e quindi? Oddio come faccio senza cucina? Oh cavoli, qualcosa ci inventeremo non è così?” pausa “Magari i cavoli no.” Marco si era già pentito da un pezzo. Anna anche senza cucina, era già cotta.
Otto e venti, Marco caricò silenziosamente l’ultimo pacco e defilato uscì dal cancello col furgone d’ordinanza eludendo la sicurezza che aveva già iniziato il suo giro.
La nuova casa di Anna non era poi così male: quaranta metri quadrati calpestabili in un condominio prevalentemente abitato da senegalesi e pachistani, dove l’odore di cuscus e verdure mischiato a riso basmati creava nell’aria un profumo acre e antico come le ascelle della Dea Calì. Ma erano tutti molto gentili anche se le esalazioni arrivavano fino al quarto piano. Già, quarto piano. Perché l’appartamento di Anna stava al quarto piano. Senza ascensore. Ecco dove si annidava il male. Alla fine dell’ultima salita, Marco stramazzò sul trentaduesimo pacco irrorandolo di sudore. Anna aveva preso due kebap con patatine e senza convenevoli iniziarono a scartare e rosicchiare, comporre e sbocconcellare, e qui venne a galla tutta la precarietà svedese: mancavano pezzi, viti, incastri e persino istruzioni. Marco non si perse d’animo, si ricordò che venne assunto per la sua provinciale creatività e segando un pezzo di qua, incastrando un pezzo di là ricreò nuovi design dal sapore surreale e grottesco ma il tutto reggeva. Oddio, sembrava di vivere dentro una scenografia di un film espressionista tedesco dove dalla cucina usciva il letto per incastrarsi nella libreria e viceversa ma in fondo era un ambiente divertente. Anna guardò tutta soddisfatta l’opera d’arte astratta che era la sua casetta e poi si lanciò. Timida com’era non lo aveva mai fatto in tutta la sua vita, lei che aveva sempre subito gli eventi senza una dialettica, lei che non osava fare un passo in più per paura di inciampare nella vita, lei che per formulare una frase doveva ogni volta ingaggiare una lotta greco-romana con le parole. Quella sera si lasciò cadere nel vuoto. Col cuore che bussava sullo sterno e nelle tempie buttò li una frase senza pensarci due volte. “Beh, a questo punto, per sapere se il letto reggerà, non è che sia il caso di provarlo prima?” ma nella mente sua risuonavano tutt’altre parole: “penserà che sono una puttana, penserà che sono una puttana.” Che brutti scherzi combina l’ovulazione. Anna per la prima volta dormì nella casetta nuova. Marco non rientrò a casa quella sera.
Ritornare alle undici sul posto di lavoro con tre ore di ritardo e per giunta con un furgone sottratto di nascosto all’azienda, incontrare sul cancello del retro la dirigenza intera impietrita, i colleghi sgomitanti e una trentina di clienti imbufaliti non è una bella cosa. Marco fece appello a tutta la sua flemma e partorì un semplice “Trovato casino.” Dopodiché fece un ellisse con i piedi girando su se stesso e l’Ikea uscì dalla sua vita. Non prima di aver sottratto dal cestone degli sconti un Teddy Bear strabico. “Che noia l’Ikea” pensò. Nessuno osò fermarlo. Anna arrivò da Marco come Supergirl: letteralmente volando, su per giù verso l’una. “Come sto?” disse. Marco la guardò, il Teddy Bear non si capiva dove cazzo guardasse: aveva un filo di trucco, due treccine fatte alla rinfusa, una gonnellina corta e un giubbottino dello stesso colore degli anfibi. “Com’era bella” pensò, la più bella ragazza media che avesse mai visto. Lui, senza parole le diede l’orso guercio, lei fu felice di ricevere quell’improvvisato regalo, del resto non ci si fa troppe domande complicate sul significato delle cose all’inizio di un amore, poi Marco prese le sue guance tra le mani e lei provò un brivido acuto come un dolore che non ricordava più da tempo, come quando suo padre la accarezzò sul viso quel pomeriggio, poco prima di morire. Marco le disse tutto, misurando parola per parola in modo da non procurarle inutili ferite, minimizzando l’accaduto perché in fondo, lui si aspettava di più dalla vita che montare tavolini da sei euro. Anna capì tutto perché era una ragazza intelligente. Troppo intelligente. Fece uno sforzo titanico nel trattenere lo tzunami che stava per travolgere i suoi occhi e resettò tutte le frasi, tutte le parole, tutte le intenzioni, tutte le pause di Marco tranne un insieme di vocaboli che non avrebbe dimenticato facilmente: “Adesso ti prego non farti delle idee che sia stata colpa tua.” “Colpa tua.” “Colpa tua.”
Anna avrebbe voluto morire. Marco voleva andarsene lontano.
Qualcuno li ha visti per strada, tenendosi per mano.

2° classificato: ALEX CURINA (Torino)
Titolo: “Sono disoccupato”

Sono disoccupato! Che strano in Italia essere disoccupati a 36 anni. Mi è sembrato distrattamente di sentire che in questo paese c’è crisi, figuriamoci sarà solo un’invenzione dei mass media o di qualcuno di sinistra.
Sono un “bamboccione”! Sono andato via di casa a 34 anni, ma per non staccarmi del tutto dalla mamma ho cercato vicino a casa un posto da disoccupato.
Sono diplomato come perito elettronico, una volta quando sentivano questa qualifica tutti pensavano fossi elettricista, oggi quando la sentono pensano solo che sono…disoccupato, magari avessi una laurea almeno potrei ambire ad un call center.
L’Italia è il paese dei paradossi, una volta appena finita la scuola al tuo primo colloquio della vita, ti assumevano solo se avevi già lavorato, se avevi esperienza. Con l’avvento della crisi si iniziò a leggere annunci del tipo: “Cercasi tecnico con grossa esperienza per contratto d’apprendista, auto…munito”. Oggi a crisi conclamata e ben salda, si legge: “Cercasi lavoratore bravo, serio, no perditempo auto…retribuito”. In Italia puoi chiedere un prestito solo se hai dei soldi, pubblicizziamo yogurt buoni solo perché fanno cagare, ci fanno credere addirittura che esiste acqua che faccia fare la pipì. I politici non vogliono aprire le “case chiuse”, perché preferiscono “chiuderle in casa” per fare gare di burlesque.
E’ sempre più complicato se non impossibile trovare lavoro, conosco gente che a mandato talmente tanti curriculum che l’ha messo come esperienza nel curriculum. Fassino prima di trovare lavoro era obeso, Flavia Vento era intelligente, la Canalis vergine.
Ho fatto qualunque tipo di lavoro, operaio, pizzaiolo, panettiere, strillone, mbianchino, ginecologo (ma quello solo con le ragazze che ci cascavano), cameriere ed in fine impiegato tecnico per sette anni. Ma la chiusura della ditta dove lavoravo è coincisa con il mio approccio verso il mondo della recitazione, così ho capito cosa volevo fare da grande….l’ ATTORE! Cioè il disoccupato!
Che non si dica in giro che non ho cercato un lavoro normale, anzi di colloqui ne ho anche fatti, ho addirittura lavorato all’IKEA, con due rinnovi, roba da non credere, 6 mesi di Lack, Billy e Brugole. Poi naturalmente quando impari il mestiere non servi più e quindi tutti a casa, pronti a cercare un’altra pseudo occupazione.
Sono stato talmente disperato che un giorno ho addirittura pensato di andare a fare il “Grande fratello”, avete capito bene il “Grande fratello”, ho partecipato anche alle selezioni, poi mi sono accorto che approdavano solo persone che conoscevano qualcuno, ma io non conoscevo nessuno…che mi volesse così male.
Mi sono reso conto che ormai sono troppo vecchio per entrare nel mondo del lavoro, e sono troppo giovane per fare politica. Avendo lavorato qualche volta in nero sono troppo delinquente per essere assunto, ma con la fedina penale pulita sono troppo onesto per candidarmi. Sono troppo scemo per andare a rubare e troppo intelligente per lavorare. Ogni tanto ho anche voglia di lavorare in banca, ma il passamontagna prude da matti.
Così ormai immerso nel vortice della disoccupazione, ho deciso di approfondire l’arte della recitazione, in dodici anni sono cresciuto diventando attore, autore, animatore, conduttore, cabarettista, insegnante di recitazione e regista. Tutte parolone che stanno a significare semplicemente che sono povero. Certo, sono povero perché non sono ancora passato dalla televisione, passaggio obbligatorio per la notorietà e conseguentemente anche per la ricchezza. Tanti mi dicono che prima o poi famoso lo diventerò, solo che vorrei diventarlo per qualcosa d’artistico e non perché mi sono legato ad un palo della luce in centro, facendo contemporaneamente lo sciopero della fame, della sete e del sesso. In fondo io non voglio diventare veramente famoso, voglio solo diventare ricco, anche se non mi darà mai la felicità, chi se ne frega, da povero sono quasi sempre incazzato, tanto vale esserlo da ricco. Anche perché in Italia basta poco per diventare famoso, basta ammazzare qualcuno, se è un parente è meglio, e ti assicuri dodici puntate su Matrix e tredici a Porta a Porta, ti fanno anche il plastico della tua abitazione gratis, senza dover aspettare che escano i pezzi in edicola. Basta dire che non sei stato tu, dopo qualche mese che sei stato tu e infine che non sai bene chi è stato, così vai a “L’isola dei famosi”, la vinci e sei una star.
Ho capito che nel mestiere dell’artista ci sono tre regole per sfondare, la prima è essere bravi, la seconda è avere culo, la terza è AVERE CULO! Anche se forse della prima, se conosci il politico giusto puoi anche farne a meno. Oppure bisogna prendere il treno giusto quando passa, solo che mi hanno detto che il mio treno è sulla linea ferroviaria della TAV. Il culo serve, tutta la nostra esistenza è basata sul culo, bisogna trovarsi al posto giusto al momento giusto. Pensate alle grandi scoperte, immaginate se le tre caravelle invece che essere guidate da Cristoforo Colombo, fossero state guidate dal comandante Schettino, al massimo avrebbe scoperto la Corsica, ma solo perché faceva il tamarro impennando la Nina, la Pinta e la Santa Maria, e non vedendo niente la prendeva in pieno.
Prima o poi comunque qualcuno mi scoprirà e io mi farò trovare pronto, l’importante che quel qualcuno non sia Schettino.
Oggi purtroppo si suicidano anche gli imprenditori, che nell’immaginario collettivo sono quelli che stanno meglio, sono i ricchi. Allora siamo arrivati veramente ad un bivio, lasciare perdere tutto o continuare a vivere. Non so voi cosa farete ma di certo io continuerò a vivere. Grazie!!!

3° classificato: RICCARDA PATELLI LINARI (Scandicci)
Titolo: “Check up”

Anche quest’anno farò un bel check-up perché io ci tengo alla mia salute.
Inizierò con le analisi del sangue. Mi farò la nitroglicemia, la sederemia, l’azotomania, il polistirolo, la birillirubina, la cretinina, le transessuaminasi… e mi farò anche una cultura sulla pipì, l’urinocultura.
Per risparmiare ho prenotato online in un nuovo centro medico nella mia città, dove fanno anche il day hospital e ci sono un sacco di ambulatori!
Miii… gli hanno dato dei nomi così belli! Tutti con le ali, l’aria, il vento!
Lo fanno per mettere a proprio agio i pazienti che così affrontano gli esami con più leggerezza e si sentono sollevati dalle preoccupazioni.
E’ un centro internazionale molto elegante… uhhh com’è elegante!
Infatti il check-up lì lo chiamano check-in!
Questa sì che è classe!
E che servizio!
Per farvi un esempio, ci sono gli ambulatori di Air France per i francesi, quelli British Airways per gli inglesi, ma non solo! Hanno pensato anche ai single, con Air One!
E per chi soffre di disturbi respiratori ci sono Air Dolomiti, Ryanair e Windjet… specializzati nelle inalazioni!
Ci sono già stato l’anno scorso ed ho fatto il check-up, anzi il check-in, con Air One… visto che purtroppo sono single!
All’accettazione mi sono presentato senza bagaglio, tanto era un day hospital.
Niente pigiama, ciabatte e spazzolino, invece molti avevano dei valigioni così enormi! Forse si dovevano ricoverare per chissà quanti giorni… c’è tanta sofferenza in giro. Poveracci, non li invidio proprio!
Fatta l’accettazione sono entrato in reparto e mi hanno subito fatto una bella radiografia con un nuovo macchinario che ci passi sotto e si mette a suonare, e finché non smette di suonare ti fanno passare e ripassare… sono esami molto approfonditi!
Quando smette di suonare significa che è tutto ok e puoi passare alla TAC.
Miii… quant’è grosso il tubo della TAC!!!
Ce ne sono tanti e sono enormi!
E li spostano continuamente in un grandissimo piazzale. Hanno pure le ruote e i motori!
Bisogna ammettere che la medicina moderna ha fatto passi da gigante ultimamente!
E dentro non ti ci infilano da solo… no! Siamo in tanti tutti seduti insieme su comode poltroncine come al cinema… una TAC collettiva per i single!
Insomma unisci l’utile al dilettevole perché ti fai la TAC e intanto conosci gente, “socializzi” e… ci siamo capiti!
E mentre la macchina è in funzione, su schermi laterali proiettano immagini che ti pare di volare! Il cielo, le nuvole… è bellissimo!
Altro che castropazzia… cacchiomania… no, come si dice… claustrofo…fobia!
Che meraviglia! Fantastico!
Però, ad essere sincero, un problemino c’è stato.
Eh sì, l’anno scorso all’uscita dalla TAC non ritrovavo più la strada e mi sono perso.
Mah… forse saranno stati gli effetti collaterali del mezzo di contrasto che ci hanno dato dentro il tubo. Sapeva di coca cola, ma doveva essere una roba più forte, e così all’uscita mi pareva di essere in un altro posto, addirittura con cartelli scritti in un’altra lingua!
Non capivo più nulla, né i cartelli né cosa diceva la gente… e così per non perdermi ho preso un taxi e pure il tassista era straniero!
Per fortuna sono riuscito a farmi capire quando gli ho detto l’indirizzo di casa mia. All’inizio ha spalancato gli occhi, forse era nuovo e non conosceva la zona, ma poi ha acceso il navigatore, mi ha fatto “ok” col pollice alzato ed è partito.
Durante il viaggio di ritorno a casa devo essermi addormentato per qualche minuto e al risveglio senza accorgermene ero già arrivato.
Ho speso 1.500 euro… minchia i taxi sono rincarati troppo ultimamente!
Oppure il tassista straniero ha fatto il furbo!? Non sono razzista però io mica mi fido tanto!
Ma quest’anno niente scherzi!
Eh no! No, no, mica sono scemo!
Quest’anno il check-up lo faccio con Alitalia così sono sicuro che all’uscita trovo un tassista italiano!

PAROLE DA RIDERE: Sexy Shop, di Andrea Pilotto e Diego Carli

SEXY SHOP di Andrea Pilotto e Diego Carli

Non posso fare all’amore con una bambola gonfiabile. Mi inibisco. Appena mi spoglio nudo davanti a lei, lei mi guarda così, a bocca aperta. E’ impossibile!
Io non sono uno da sexy shop anche se un mio amico mi fa: “guarda che i tempi sono cambiati, prova ad andarci vedrai che ti ci diverti”. E proviamo allora. Così mi son detto: “Vado in un sexy shop”. E’ vero che è cambiato tutto. Dall’entrata si capisce che è tutto diverso. Persino il campanellino a tema: Non fa come tutti “Pin-Pon” no, fa… Lasciamo perdere.
Entri, ed è vero. Il sexy Shop non è il posto squallido come un tempo, no, è glamour! Ambiente raffinato, musica soffusa e una signorina che ti accoglie sorridente. In poco tempo ti rendi conto che ci sono davvero dei modelli nuovi di bambole gonfiabili: in piedi, sedute a gambe aperte, a pecorina, vestite da hostess, da infermiere, da parlamentari…
Addirittura uomini! Ci sono i Bamboli gonfiabili! Non oso pensare da dove si gonfino.
Ce ne sono persino di alimentate a batteria, in modo che possano vibrare durante il rapporto. E sono davvero realistiche: si muovono, ridono, ti prendono di nascosto la carta di credito e sparlano di te con le amiche dal parrucchiere. Sono talmente realistiche che fanno come le donne vere che ho avuto: simulano l’orgasmo. Altre, certe sere le accendi e parte un loop con una voce femminile che dice “Stasera ho il mal di testa!” La tecnologia! Alcune hanno anche l’aspetto di personaggi famosi: ne ho visto una che assomigliava alla Minetti! Mi sono avvicinato, le ho toccato il culo e lei si è girata e mi ha tirato uno schiaffone. Cacchio era la Minetti veramente! Altre le ho trovate di cattivo gusto, come quella che dopo il sesso orale fa i rutti; o quella masochista che si frusta ma si rompe subito, poi c’è quella drogata che ti trasmette l’HIV, vabbè che costa poco e te la vendono già bucata… E hanno ognuna un nome: Karina, Milly, Rose, Ikea… Ikea? Chiedo alla signorina: “Mi scusi ma perché questa si chiama Ikea?” “E’ per i pigri che non vogliono fare fatica, due operai specializzati la trasportano e gliela montano direttamente a casa sua.” Che professionisti.
Mentre mi guardo intorno vedo che in fondo alla stanza c’è una parete con praticato un foro. Sopra, la scritta “GLORY HOLE”. Ma che cos’è? Chiedo lumi, la signorina mi fa ironica: “Ma signore, si vede che lei non è un nostro fedele cliente. Il Glory Hole è un buco in cui lei può inserire il suo… amichetto e dall’altra parte una persona se ne prende cura, diciamo così, non importa se sia un uomo o una donna, tanto lei non lo saprà mai, avviene tutto con discrezione nell’anonimato più totale.” Mi convince, lo provo. Forse non era la mia giornata ma la persona in questione sono stato costretta a conoscerla: ho dovuto restituirle la dentiera.
Il mondo dei “sex toys” è veramente un universo meraviglioso. Ho visto mani in lattice, con tanto di riscaldamento interno, che ti danno veramente l’impressione di essere masturbato da un’estranea. Ne ho comprata una. Ora le bistecche posso tornare a mangiarle. Ma non solo: ho visto parti intime femminili in lattice, iperrealsitiche. Davanti, dietro, sotto, sopra. Quanti buchi ha un sexy shop! Sono sicuro che se mi lasciassero vedere i libri contabili e i blocchi fatture ne troverei anche li.
Assorto nei miei pensieri, mi risveglia la signorina gentile che mi fa: “Vuole forse vedere il nostro nuovo spanking bench? E’ arrivato giusto oggi.” La guardo interessato. Non voglio fare l’ennesima figura di quello che non capisce un cazzo e detto dentro un sexy shop il paragone calza a pennello. Mi faccio accompagnare. Lo spanking bench in pratica è un mobile anatomico sul quale la partner si sdraia per darti l’opportunità di sculacciarla. Meglio se legata. Ma chi vorrebbe utilizzare una cosa del genere? Solo un malato, un pervertito che degrada se stesso e la partner, un maniaco sessuale all’ultimo stadio… Ne ho comprati tre.
Ero alla fine della spesa e la signorina mi sussurra delicatamente ma con malizia: “E… al piacere della sua partner non ci ha pensato?” e mi propone una serie di vibratori, delle più disparate forme e dimensioni. Io sorrido amaro e gli faccio: “No, guardi… meglio di no. L’ultima volta che l’ho usato con la mia ragazza, le ho procurato delle ferite lacero contuse. Secondo lei, è stato a causa della forma o dei materiali?” “Non è che per caso, non l’ha tolto dalla confezione?” Ed è stato lì che m’è passato un ricordo di quand’ero piccolo e di quanto mi facevano male le supposte che mia madre mi infilava ancora incapsulate nel blister, da qualcuno avrò pur preso.
Con il carrello che traboccava di oggetti e una stima di spesa che si avvicinava ai quattordicimila euro mi sono avvicinato alla cassa e come dal nulla mi è venuto in mente lui: mio nonno, il mio caro vecchio nonno, vecchio, me lo ricordo sempre vecchio, l’ho visto sempre vecchissimo, così vecchio che negli ultimi tempi nessuno si ricordava più quanti anni avesse, tanto che il giorno del suo compleanno per stabilire l’età dovevamo usare il carbonio quattordici! Mio nonno, curvo sui campi mentre lavora, perché lavorava tanto, dodici ore al giorno e non aveva tempo per queste cose. Ah se mio nonno vedesse tutto questo. Cosa penserebbe di me, lui che si faceva i preservativi con la camera d’aria del suo trattore? E finiva sempre per romperli. Lui, che l’unica oggettistica sessuale che aveva provato con mia nonna era il tappo per le botti. Lui, che quando voleva fare il trasgressivo, portava in camera la mucca da latte. So cosa direbbe di fronte ad una delle bambole gonfiabili iperrealistiche che ho visto. Direbbe: “Tu, alzati e fammi la cena!”
Mio nonno era un uomo antico, dai piaceri antichi e dalle voglie semplici e tradizionali.
Andava a puttane.
Ma non è come pensate: una volta il sesso a pagamento non era pura mercificazione come adesso. Si andava nei bordelli più per una questione di affetto che altro. Dopo ore di lavoro nei campi, dove anche la moglie condivideva con te le privazioni di una vita di stenti, si cercava nella prostituta un evasione, un abbraccio, una parola, un bacio. Si cercava del calore umano. E al paese di mio nonno Marta, l’unica prostituta della zona, era là per questo. Tutti ci andavano. La Marta, sempre una parola di conforto, un carattere forte e la candida. Quando andò in pensione, Tutto il paese fece una colletta e le comprò dei fiori e qualche genere alimentare. Mio nonno fece di più: le scrisse una lettera. Ce l’ho ancora qui, in tasca, e la conservo con affetto. Per me è pura poesia. “Cara Marta, siamo stati tuoi clienti affezionati e con il cuore gonfio di tristezza vogliamo ringraziarti per quello che hai fatto per tutti noi. Ci hai reso uomini, ci hai insegnato ad amare e ci hai dato qualcosa che non andrà mai via e che ci accomuna tutti. La scabbia, ma che vuoi che sa una pustola in più o in meno quando uno c’ha già la pellagra… Tuo Anselmo”.

PAROLE DA RIDERE: Christmas Cake, di Diego Carli (Seconda ed ultima parte)

CHRISTMAS CAKE di Diego Carli (Seconda parte)

“Brioche fresca, succo d’arancia e caffè espresso! Oggi sono uscita presto e ho preso tutto da Mario’s Café, colazione all’italiana.” “Fai così tutte le volte che devi farti perdonare qualcosa.” Disse Margareth seduta sulla sua poltrona in soggiorno, “E’ che ti voglio bene mamma.” “Non mi compri con una continental breakfast mia cara, piuttosto: non hai ancora risposto alla mia richiesta.” Beth non aveva voglia di litigare: “Michael mi ha chiesto di passare la vigilia con lui e alcuni suoi amici” disse speditamente. “Dio ti ringrazio! Posso finalmente passare la mia in santa pace!” “Mamma!” replicò offesa “come potrei lasciarti sola una serata intera? Per giunta la vigilia di Natale?” “Cosa vuoi che mi succeda Elisabeth! E poi quante vigilie ho passato da sola con te addormentata davanti alla tv? Preferisco il silenzio al tuo russare in tutta onestà.” Beth rise, sua madre la guardò esterrefatta, non la ricordava ridere dall’ultimo cambio pannolini, le cose stavano veramente per cambiare pensò. Elisabeth come al solito organizzò tutte le cose per bene: il giorno lo avrebbe passato con sua madre, dopo cena l’avrebbe messa a letto come desiderava e poi via, da Michael e chissà… Oppresse subito le fantasie, non era il momento di volare alto. Stranamente, quell’ultima vigilia si aprì con un sole inaspettato e caldo, un dono che il Signore fece alle due donne in viaggio alla volta di Nottingham, la città brulicava di gente, babbi natale improbabili agli angoli delle strade e decorazioni più o meno funzionanti. Era il regalo per sua madre questa trasferta nella città di Robin Hood e Lady Marian, non trascurarono infatti di visitare il castello, un po’ di shopping e poi via lungo i canali della vecchia zona industriale: Margareth rideva e la sua gioia era incontenibile, una felicità quasi imbarazzante per un’inglese sobrio, Beth l’assecondava in tutto ma questo era normale, per nulla normale era quello strano pizzicore che sentiva attraversare il suo corpo e il suo stato d’animo al quale non sapeva dare una spiegazione chiara. Non ci vuole un medico a capire che gli ormoni stavano cominciando a mettersi in moto come una vecchia locomotiva abbandonata che vuole competere con i treni ad alta velocità, da come si stavano mettendo le cose il locomotore di Beth non si sarebbe certo fermato alla prima stazione. “E’ stata una giornata stupenda mia cara. E ancor più stupendo è sapere che per te non è ancora finita. Divertiti tesoro e non pensare a me. Io sto bene e non mi manca nulla.” Margareth era sincera, guardava la figlia dal suo letto tecnologico come non l’avesse mai vista prima: truccata e con il vestito nuovo comprato il pomeriggio stesso, era così bella che quasi pianse di gioia ma si trattenne con forza. “Mamma. Siamo ancora in tempo a…” “Adesso non essere sciocca. Lasciami al mio libro e vai, non dimenticare la Christmas Cake, non vorrai andare a casa dei tuoi amici a mani vuote?” “Buon Natale mamma.” Elisabeth, col cuore leggero e la mente in balia di una tempesta d’emozioni, uscì di casa muovendosi con grazia e malizia che non sapeva di possedere fino ad un minuto prima, la Christmas Cake invece rimase immobile, granitica, dimenticata sul tavolo ovale del soggiorno. Matthias e Nigel, i cugini di Michael non erano male e veramente di compagnia, anche se quest’ultimo non la smetteva di far riferimento al suo lavoro noioso, talmente noioso che neanche Beth si ricordava più di cosa si occupasse. Abigail, la ragazza di Nigel era alquanto strana e riservata, disse più o meno sei parole in tutto: “Odio il Natale” e tre di queste se le giocò così. Sue la conosceva di vista ed era troppo bella per i suoi gusti, almeno per quella sera, Beth cercò di portarla via dal centro dell’attenzione conversando amabilmente con lei, quest’ultima non si tirò certo indietro, in fin dei conti sarebbero potute diventare grandi amiche, poi notò che Matthias cominciava a dare segni di insofferenza e capì al volo di aver forse rotto qualche uovo nel paniere; lasciò stare Sue all’istante, il clima si rilassò. Ciò che rese ancor più simpatici i cugini di Michael e le due ragazze fu che se ne andarono fuori dalle balle prestissimo. “A Long Way Down” doveva essere un libro veramente divertente ma Margareth non riusciva a concentrarsi tanto era piena di quella giornata, il cuore le andava a mille, continuava a leggere e rileggere la stessa pagina, nulla da fare: “E se provassi a dormire?” si chiese. “Adesso non sparire capito? Hanno aperto quel centro benessere da poco e ci dobbiamo andare martedì insieme assolutamente. Niente scuse! Ti chiamo io! Buon Natale anche a te Mick!” Sue che non era ingenua, fece l’occhiolino a Elisabeth prima di uscire, lei rispose con un cenno di assenso con la testa pesante come una palla da bowling. Stava capitando tutto insieme ed era meraviglioso! Cominciò a tremare e per controllarsi si girò verso Michael lentamente, sbalordita vide le sue mani vibrare senza controllo e il primo gesto d’istinto fu di calmarle con le sue. La reazione a catena che la chimica umana produce autonomamente fece si che le dighe crollarono e i fiumi invasero le valli sottostanti. “Si può morire di felicità? Mai sentita una cretinata simile.” Margareth non aveva sonno, il libro di Nick Hornby sul petto e questi pensieri nella testa: era serena ma non era questa la vigilia che si sarebbe aspettata. “Perdonami Beth, non so che mi prende, sono un po’ arrugginito.” Beth nuda a cavalcioni sul suo uomo non volle sentire ragioni, tutto si poteva dire di lei ma non che fosse una tipa che getta la spugna al primo colpo e poi, diavolo, aveva aspettato così tanti anni che mai e poi mai avrebbe mollato la presa: “Ho tutta la pazienza del mondo” disse senza demordere “e solo Dio sa quanto mi sono allenata per averne.” Detto ciò si rituffò come un delfino in un mare di coperte con un pensiero cinematografico: “E’ uno sporco lavoro, ma qualcuno lo deve pur fare.” Una stanchezza imprevista, innaturale, come una luce fredda improvvisa si fece spazio a spallate nel cuore di Margareth spazzando bruscamente l’euforia di prima: “Molto bene, credo che dovrò dormire, molto bene”, volle spegnere la luce ma non riuscì a muoversi, cercò a fatica di togliersi gli occhiali, il libro scivolò dal letto perdendo il segno. “Dammi il tempo di riprendermi, fammi bere un bicchier d’acqua almeno, è la quarta volta che lo facciamo.” Beth lo guardava soddisfatta e scarmigliata: aveva messo in moto la macchina e non aveva nessuna intenzione di parcheggiare: Bloccò il suo braccio teso verso il comodino e lo trascinò nuovamente negli abissi più profondi. Come guidata da una magia occulta, la Christmas Cake cominciò a sgonfiarsi nel buio del salotto quasi vergognandosi di farlo, di sopra Margareth realizzò che la sua vigilia era veramente diversa da tutte quelle passate, fece giusto in tempo a sorridere salutando Beth con il pensiero prima di afflosciarsi sul cuscino in sincronia perfetta con la torta in questione. Le promesse non vanno mai fatte a mente calda, soprattutto in un letto. Meglio calmarsi ed aspettare. L’amore eterno non esiste e se ci si ostina a crederlo, il lavoro duro va fatto fuori dalle lenzuola, ma a Michael e Beth non importava filosofeggiare sull’argomento alle sei di mattina, volevano volare con i sogni e basta, fino a prova contraria sono ancora gratis. “Quando ci vediamo?” “Martedì vado con Sue a farmi bella per te.” “Allora vale la pena aspettare.” Beth lo baciò e uscendo udì distintamente Michael dirle: “Vieni in America con me.” Lei si bloccò un istante sulla porta, gli regalò un sorriso ostile e uscì tra i pensieri più cupi. L’aria fredda di quell’alba del venticinque dicembre portava nuvole nel cielo e nella mente di Beth, doveva ricalcolare la sua vita e in fretta, ma come? Forse era stato tutto un delirio, un incubo, uno sfogo di una zitella assopita e vogliosa eppure non ebbe molto tempo per pensarci: nel buio della mattina notò subito la luce accesa in camera di sua madre. Trasalì di colpo. Ci mise istanti secolari ad aprire la porta di casa perché non sentiva, sapeva. Nel cuor suo sapeva. I funerali furono celebrati in fretta e furia una mattina nebbiosa e umida prima della fine dell’anno, pochi conoscenti data la vita ritirata delle due donne, tra i quali il signor Westwood col vestito della festa ma le braghe sempre a mezzoculo, niente parenti, solo un vecchio zio, fratello della madre venuto da Newcastle che Beth non aveva quasi mai visto, la moglie secca come un cipresso e due smaniosi bambini grassi che non smettevano di sgranocchiare ad ogni pausa della predica: erano la colonna sonora del prete. Uno di questi addirittura, per raccogliere un “M&M’s” si sporse troppo e cadde nella fossa bagnata prima che calassero la cassa, facendo un carpiato e atterrando nel fango, non si fece nulla perché obeso oltremisura ma fu una scena triste. Più in là defilata, Sue, con un cappottino blu che le esaltava la figura snella e con gli occhi gonfi dietro occhiali da sole alla moda italiana; anche se non c’entrava nulla con la famiglia era venuta lo stesso. Non ebbe il coraggio di avvicinarsi. Dolore, senso di colpa, disperazione e poca fiducia nel futuro chiusero Beth nella clausura della sua casa vuota e per giorni nessuno la vide più. Forse pensava di dover espiare una punizione divina per aver osato sfiorare il paradiso abbandonando la persona più cara che avesse, oppure il peso della presunta responsabilità della morte di sua madre era talmente insopportabile da non riuscire a farsene una ragione, nessuno seppe mai cosa passava per la sua testa in quei giorni tristi e lugubri. A dieci giorni dalle esequie Sue non riuscì a restare indifferente: si vestì con ciò che trovò e partì alla volta di West Hill Drive, era sempre splendida, anche con addosso una semplice giacca da pioggia, non a caso qualcuno per strada le rivolse una parola di troppo e lei rispose per le rime, suonò “ventun” minuti e quella porta si aprì allo scoccare del ventiduesimo. Che cosa si dissero le due ragazze resterà per sempre un segreto cucito nell’animo femminile, la parola è un grande potere che hanno tutte le donne e la esercitano nel bene o nel male e questo un uomo non lo capirà mai; se tu, maschio, dovessi mai incontrare un’amica della tua femmina e quest’ultima ti chiedesse amorevolmente quasi preoccupata: “E quella grossa emorroide che ti dava noia alla fine, si è assorbita da sola?” Sappi che non è l’unica cosa intima che sa di te. Perché le amiche si dicono tutto e soprattutto tutto di te. Sue e Beth erano diventate veramente amiche e forse lei cercava qualcuna che la facesse uscire dal guscio di dolore e Sue era lì per questo. Come un sommozzatore con le bombole scariche Beth uscì dall’apnea, prese la bicicletta e corse, corse, corse. Fece tutta Rosemary Street schivando le automobili in eccesso di velocità, i ragazzini che tornavano da scuola e i lavoratori gonfi di libagioni delle feste in forzata pausa pranzo. Stette a fissare la porta di Michael per un bel po’ cercando di recuperare i dati nella memoria del suo cervello: “Aveva detto che sarebbe partito il due e oggi che giorno è? Scusa, che giorno è oggi?” chiese al primo ragazzino allibito che passava. “Sei fuori vecchia? E’ il sette svegliati!” Vecchia? Nessuno le aveva mai detto vecchia, non ancora. O stava da schifo pensò, oppure invecchiando precocemente, poi l’attenzione si spostò su quella frase: “Vieni in America con me.” “Che ci faccio qui, sono in ritardo di cinque giorni.” Con questo pensiero tamburellò distrattamente sullo stipite e senza aspettare risposta si girò sicura di se. Un rumore alle sue spalle, come di una pigra chiave nella toppa che non ricorda quale sia il lato buono per girare le fece scendere una lacrima, mentre ancora saldamente spalmata sul tavolo di casa la Christmas Cake ricoperta di muffa, sputava un piccolo e inutile fiore invisibile.

PAROLE DA RIDERE: Christmas Cake, di Diego Carli (Prima parte)

CHRISTMAS CAKE di Diego Carli (Prima parte)

“Oh Cacchio le decorazioni!” “Beth! Linguaggio!” “Si mamma scusa! Me ne sono accorta ora di non averle. Quelle dell’anno scorso le abbiamo buttate.” “Mancano quattro giorni a Natale Beth. C’è tutto il tempo.” Elisabeth si preoccupava per tutto e per tutti. Era sempre agitata e non riusciva ad avere un giorno di pace. Aveva iniziato a settembre a organizzare la sua Christmas Cake, quest’anno in largo anticipo rispetto ai tempi normali di preparazione; non si seppe mai perché l’anno scorso la sua torta si sgonfiò in prossimità della vigilia fino a diventare delle dimensioni di una pizza marrone e bianca. Forse troppo brandy, forse troppe uova, forse il marzapane o il lievito; la cosa certa fu che quel Natale del duemilaquattro Beth lo passò con uno straccio umido in testa e stridor di denti, tutto ciò sotto gli occhi pazienti e umidi di Margareth, la povera madre che la accudì amorevolmente mentre era proprio lei a dover ricevere le maggiori attenzioni causa il suo stato di salute. Ma la Christmas Cake si sa, è un’arte e un solo errore, sia pur piccolo e insignificante che possa compromettere la riuscita di questo gran capolavoro, provoca nella psiche inglese una sorta di sconvolgimento pari alla perdita delle colonie d’America. Il soggetto diventa impotente di fronte agli eventi come una cesta da tè gettata in mare da un colono travestito da pellerossa durante il Boston Tea Party. L’inglese storicamente non è abituato a perdere, in nessun campo e la torta tradizionale di Natale è un punto d’orgoglio. Si inizia la preparazione un giorno prima di quando la si vuole cuocere, si mette l’uvetta con i canditi e si lascia che la frutta assorba il brandy per dodici ore. E poi via con lo sbattimento d’uova in senso letterale e figurato più un intero campionario di amenità che chiunque può trovare in un qualsiasi libro di ricette. E qui sta la prima bestemmia. Un vero inglese non aprirà mai un libro di ricette. L’intruglio si tramanda oralmente di bocca in bocca, da madre a figlia, da zia a nipote, dai tempi di Mago Merlino fino a William e Kate senza interruzione; per amalgamare bene i gusti, il lavoro va iniziato minimo ad ottobre, i filantropi della tradizione addirittura anticipano la lavorazione ad agosto, i più furbi la torta, l’avanzano dal Natale precedente e te la spacciano per fresca ma questa è un’altra storia. Per noi profani continentali, questo dolce non è altro che un’accozzaglia di briciole raccattate dai vari piani cottura, frullate insieme e servite con un coperchio di glassa bianca dolciastra solitamente decorata con motivetti natalizi tridimensionali: pupazzetti più o meno commestibili di bambini che pattinano, pini, steccati e babbi natale gongolanti. Giunge notizia dal Regno Unito che qualche buontempone in un impeto di ribellione giovanile, in passato ebbe il coraggio di decorare la suddetta “Regina delle feste” con babbi natale con machete che inseguono bambini sui pattini e steccati insanguinati con colore alimentare, ma non si hanno notizie certe. Certo è che Elisabeth quest’anno voleva fare le cose per bene. Ci teneva a far passare a sua madre un Natale speciale. Speciale come un qualsiasi giorno speciale da dieci anni a questa parte, da quando Margareth ebbe quell’incidente, perché Beth aveva giurato a se stessa che tutti i giorni da allora in avanti, dovevano per forza esserlo per la sua cara mammina. Trentun anni ad agosto, ancora da compiere, lo stesso giorno di quando mamma venne investita da quel furgone impazzito in Market Place, nel cuore di Mansfield, cuore nel vero senso della parola dato che la St. Peter’s Way e la Rosemary Street racchiudono il centro formando un’area simile ad un cuore. E il cuore di Margareth si fermò là, dentro quel cuore, per ventun secondi, dopo un volo di ventun metri, il ventun agosto, il giorno del ventunesimo compleanno di Beth. Alle volte non si comprende come il destino possa usare la più cinica parte di sé per giocare con gli umani, siamo pedine dell’ignoto ma se l’ignoto ci prende anche per il culo non c’è partita. Il signor Philip Begum, medico in pensione che si stava attardando tra una bestemmia e l’altra per pulirsi una scarpa dopo aver pestato una cacca di cane, prestò il primo intervento e fu una vera fortuna. Il dottore divenne superstizioso e in compenso Margareth sopravvisse ma perse l’uso delle gambe, il ventun per cento della vista, l’uso della mano destra nella medesima percentuale, qui la legge dei numeri farebbe girare le balle a chiunque ventun volte e ancora, vari piccoli problemi collaterali che sommati fanno la differenza. Non si fermò la vita di sua madre ma quella di Elisabeth si: da allora uscì dal mondo per occuparsi di lei a tempo pieno, il lavoro le consentiva di farlo; in effetti le due donne non stavano male economicamente, una buona retribuzione e una cospicua “disability pension” garantivano una vita serena, di sicuro grazie anche a quel famoso discorsetto fatto dalla giovane e determinata ragazza al Department of Social Security: “Se date il ventun per cento di invalidità a mia madre, il cento per cento lo garantisco io a voi!”
Vivevano al quarantasette di West Hill Drive in quella pigra e noiosa Mansfield, celebre quasi esclusivamente per aver dato i natali ai Rubettes, il gruppo pop che negli anni settanta emerse con l’hit “Sugar Baby Love” un motivetto che ricordano in tre o quattro oltre a Margareth. Lei amava raccontare di quel loro concerto, uno dei primi, dove incontrò Phil, il padre che Beth non conobbe mai perché la concepì per poi fuggire nel tempo di una strofa, esattamente tra le parole “People, take my advice” e “Don’t think twice”. Lo faceva più che altro per ricordare a se stessa che volto avesse quell’uomo che stava sparendo dalla memoria velocemente o forse solo per poter raccontare qualcosa di lui a sua figlia, sempre così agitata, nervosa, inquieta; non le faceva mancare nulla per carità, anche troppo premurosa e attenta ma Margareth soffriva, pativa nel vederla ogni giorno sfiorire e spegnersi dietro alle sue esigenze senza avere una possibilità per se stessa. Lei sapeva che Beth, per quanto si sforzasse, non era felice e se con le parole e con i fatti lo dimostrava, veniva tradita dalla sua insofferenza crescente e inconscia: le stava succhiando l’esistenza e questo non poteva sopportarlo, la sua infermità si, questo no. Quante volte le aveva parlato: provare ad uscire, frequentare gente, trovarsi un bravo ragazzo, nulla da fare. Erano sempre argomenti di litigio, una volta Beth l’aveva beccata con una serie di indirizzi in mano riguardanti alcune infermiere specializzate che la fece andare su tutte le furie: Solo Beth poteva occuparsi di lei, nessun altro quindi dimenticarono l’argomento ma i macigni nel cuore dell’una e nella mente dell’altra pesavano una libbra al giorno. Quattro giorni a Natale e il freddo, quello vero, doveva ancora farsi sentire, quindi era un piacere uscire di casa in bicicletta verso tarda mattinata sotto un insicuro sole, raro per il Nottinghamshire come la visita della regina: “Esco mamma. Non ti ammazzare.” “Farò del mio meglio cara.” Elisabeth infilò il caschetto fregandosene dell’estetica, il giubbotto giallo, inforcò la bici e via, giù per la riva fino al grande incrocio, salutò il signor Westwood del “The New Inn” sempre con le braghe sotto al culo e legata la bicicletta, senza togliere il casco si avviò a piedi per Clumber Street dove a metà c’era un mercatino di natale improvvisato. Cercare le giuste decorazioni per la Christmas Cake era un’impresa quasi quanto cuocerla e Beth cominciava a stressarsi, lentamente come il tempo incessante che vedeva trascorrere sapendo di aver lasciato sua madre sola in casa. Non era facile districarsi tra candele profumate, ghirlande di vischio, palle colorate e puzza di burro fuso. Non si è mai capito perché in una persona, la percezione degli eventi che stanno per cambiare radicalmente la sua vita, si manifestino sotto forma di pugnali pungenti sul collo che richiamano l’attenzione in un punto preciso dietro di se. Fu questa sensazione di fastidio che durava da diversi minuti a convincere Beth a girarsi indietro e guardare verso il rimorchio del fast food affollato, dove capeggiava la scritta “Food 4 all Seasons”, notò con difficoltà un ragazzo che la stava scrutando chissà da quanto, con una vaschetta di patatine in una mano e un albero di natale così sterile da sembrare un’antenna tv nell’altra. La stessa misteriosa energia, quella dei pugnali, trascinò la ragazza verso quell’uomo fino a ritrovarselo di fronte; tutto si poteva dire di Beth tranne che le mancasse coraggio e voce: “Lei mi sta fissando signore. Ci conosciamo?” “Elisabeth?” disse imbarazzato l’individuo alto e magro sotto gli occhi inquisitori dei presenti immobili con bocche semiaperte piene di cibo e bicchieri a mezzaria. Ci vollero alcuni secondi per farle cambiare sguardo e atteggiamento. “Michael? Tu sei Michael?” Tutti si rilassarono e tornarono ai loro alimenti devastanti. Michael, quel Michael: la sua prima cotta alla Senior High School; era proprio lui! Com’era cambiato però, sempre magrissimo ma più uomo, trasandato nell’abbigliamento, con una leggera barba incolta e il fascino immutato. Ma non era partito per Boston con i genitori dopo il diploma? “Sono tornato a trovare alcuni parenti e amici per Natale, riparto il due gennaio, forse, ho un biglietto aperto, non so. E tu? Come ti va?” “Va che è una merda!” l’istinto le suggerì di dire questo ma sostituì la sillaba “da” con “aviglia” e tutto filò liscio, anche troppo. Non smisero di parlare, mangiare porcherie e ridere per le seguenti due ore e trenta, Beth sorrideva continuamente pur avendo dimenticato come si facesse, per fortuna c’era la natura a mettere a posto le cose, la stessa che cominciò a stuzzicarla con pensieri trasversali poco attinenti alla conversazione: parlavano dell’America e lei fantasticava sulle sue labbra, ricordavano i bei tempi giovanili e il pensiero vagava a quanta forza avrebbero avuto quelle braccia nel stringerla, ritornavano sulla noia della vita di provincia e lei delirava sul come sarebbe stato dolce averlo tra le sue… La mamma! “Oddio! Oddio, ommioddio!” Beth lanciò indietro la leggera sedia di plastica alzandosi di scatto, “Sono impazzita! Impazzita!” “Ti rivedo?” chiese lui, “Devo andare, devo andare, devo andare!” “Beth, la vigilia ci troviamo a casa mia con degli amici, mi piacerebbe se tu…” “No, si, no, non so, non credo, credo di no!” Beth lo urlò quando era già lontana. “Se cambi idea sai dove abito!” disse Michael tra se e se, pagò sette sterline e venti dimenticando quell’aborto di pino sotto al tavolo e si avviò verso la fermata del bus. Avete mai visto una donna correre in bicicletta a novantadue chilometri all’ora? Quelli di Mansfield si: un pomeriggio di dicembre di qualche anno fa. Margareth, seduta sulla sua sedia anatomica guardava l’orologio sul muro e sorrideva pregando: “Signore, fa che sia la volta buona.” La figlia non la lasciava mai sola in casa per più di venti minuti ma non era affatto preoccupata anzi: “Speriamo che le sia successo qualcosa.” Pensava, poi improvvisamente: rumore di bicicletta gettata sull’asfalto con annesso caschetto, chiavi isteriche e sbagliate inserite e tolte dalla serratura, apertura e chiusura violenta della porta d’ingresso, corsa affannata nel corridoio ed infine eccola. Sudata come un puledro al Derby Racecourse, Beth non riuscì ad articolare nessuna lingua comprensibile per i primi tre minuti, appoggiata al piccolo caminetto del soggiorno mentre la traspirazione acquea stava spegnendo l’esiguo fuoco crepitante. Margareth alzò lo sguardo abbassando gli occhiali e disse laconica: “Hai preso la panoramica per tornare a casa?” Quello che uscì successivamente dalla bocca della ragazza fu un’accozzaglia di vocaboli shakerati e vomitati a caso: “Tardi, ore, Natale, Cake, Michael, scusa, pazza, corso, perdona.” Le mamme si sa, capiscono al volo i figli, è il loro ruolo e la loro magia, quindi replicò soddisfatta: “E… Come l’hai trovato?” Il sudore di Beth si congelò di colpo per poi sbrinare sulla fiammella ormai spenta. “E’ molto cambiato o è sempre carino come una volta?” Insistette. Beccata con le mani nella marmellata. Come un automa uscito da un libro di Asimov, Beth si girò lenta e salì di sopra a farsi una doccia senza notare la linea della bocca di sua madre che spingeva le orecchie con forza, liberando una felicità estrema, imperiosa e scioccante. Cenarono in silenzio col sottofondo del telegiornale che divagava sullo sciopero generale in corso, Margareth si versò un goccio di pessimo vino francese da supermercato e senza distogliere lo sguardo dal bicchiere sibilò: “Se non ne vuoi parlare per me va bene.” “Non c’è niente da dire.” Replicò secca Beth. Si profilava un’altra seratina furente. “Elisabeth. E’ tanto che te lo voglio dire ed ora mi starai ad ascoltare. Ho una notizia per te: sono inferma ma non stupida, perciò da ora in poi gradirei che tu la smettessi di trattarmi come tale, sono io tua madre e non tu la mia!” Beth regredì a bambina cattiva in un secondo, Margareth aveva colpito nel segno. “E va bene mamma. Ho incontrato Michael, un mio compagno di liceo, te lo ricordi?” “Vagamente” rispose beffarda ma rammentava ogni dettaglio della cotta di sua figlia per quel ragazzo gentile, “ho fatto tardi per questo e mi dispiace.” “Non devi essere dispiaciuta anzi. E’ bello che tu veda gli amici ogni tanto. Vi rivedrete durante queste vacanze?” A Beth passò un’ombra sul viso: “Non credo, no.” Margareth allora volle tentare qualcosa: “Elisabeth guardaci: passiamo tutte le nostre vigilie di Natale a guardare “Dinner for one” alla televisione, lo conosco a memoria quel film e se non fossi inchiodata qui potrei interpretarlo meglio di May Warden, non ti pare che sia giunto il momento di accontentarmi una buona volta? Voglio passare la vigilia a modo mio, a letto con un bel libro, una tazza di tè e i miei pensieri, senza il suono della televisione fino a mezzanotte e tu che ciabatti per chiedermi ogni due minuti se mi serve qualcosa!” Aveva alzato la voce recitando la parte della madre autoritaria, guardò di sghimbescio la figlia per intuire la reazione che non ci fu all’apparenza e continuò a guardarla mentre Beth in silenzio la lavava e la metteva a letto con amore, senza una parola tranne un triste e pensieroso “buonanotte mamma” prima di scendere e sbrigare le ultime faccende. Margareth quella notte si addormentò come un calciatore che ha appena vinto la Champions League. (Fine prima parte).

PAROLE DA RIDERE: Anna e Marco (a Dalla piacendo), di Diego Carli

ANNA E MARCO (A DALLA PIACENDO) di Diego Carli

“Che noia l’Ikea.”
Marco se lo ripeteva tutti i giorni da quando lo avevano assunto presso la sede di Carugate.
Montava alle otto e smontava alle venti. Sempre lo stesso tavolino.
“Che noia l’Ikea.” Marco se lo ripeteva tutti i giorni.
“Venga Baraldi!” Gli aveva detto il capo sede il giorno del colloquio: “Prenda quella seggiola e si sieda, le dò tre minuti.” Marco s’era guardato attorno ma di sedie in quell’ufficio, manco l’ombra. Solo un cacciavite a stella, venti viti sulla scrivania e un pacco piatto a terra. Volevano verificare l’attitudine al lavoro fin da subito. Non si perse d’animo, in due minuti e quarantanove secondi scartato il pacco, col cartone costruì una sedia in scala uno a uno quasi perfetta e facendo finta di sedervi sopra pensò “Alla fine quell’inutile corso di mimo e origami che ho frequentato due anni fa è servito a qualcosa.”
Il capo sede per tutto il tempo lo osservò con la stessa espressione di un guerriero cinese in terracotta seppellito da duemila anni per poi aggiungere muovendo solo il labbro inferiore a mò di pupazzo da ventriloquo: “Baraldi. Non riesco a distinguere in lei la sottile linea che separa il genio dallo stronzo.” “Con linea intende forse una serie di punti adimensionali ravvicinati che si susseguono l’un l’altro?” chiese Marco. Assunto per senso creativo nell’affrontare un problema, ma ben presto Marco si accorse che l’unica fantasia che ti puoi permettere, se sei un magazziniere, è pensare a come sarebbe singolare fare le impennate col carrello elevatore.
“Che noia l’Ikea.” Marco ormai quel tavolino lo montava ad occhi chiusi e con gli occhi ben serrati cominciò a pensare: “Billy. Skoglund. Perché mai dare ad una libreria il nome di un cane ed a un divano letto quello di un attaccante dell’Inter degli anni cinquanta?” C’era un senso di precarietà in tutto questo, di incertezza, di imprecisione. Ecco, gli svedesi Marco se li immaginava così, come i contenuti dei sacchettini nel kit di montaggio: pratici e moderni ma alla fine manca sempre qualcosa; certo non lo si può definire un popolo di grandi artisti pensava, per esempio, metti a confronto un quadro fiammingo e un quadro svedese: Il primo ci passi delle ore davanti, il secondo al massimo ci passi attraverso e non è una differenza da poco. Un senso di logica instabile. Persino il cibo non è chiaro: Un popolo si distingue anche da quello che mangia; un tedesco è preciso, lo si vede dal würstel: è un cibo che sai dove inizia e sai dove finisce, l’italiano è incasinato, basti guardare gli spaghetti: non si capisce un cazzo, ma gli svedesi sono degli indecisi: o salato o dolce che ci vuole? E allora perché abbinare le polpette con la marmellata? Non c’è logica. Ma forse una logica c’è dato che le polpette escono dal tuo corpo con la stessa dimensione con cui vi sono entrate, probabilmente la marmellata fa da lubrificante. Questo comunque, non toglie i dubbi su una vita di incertezze. Pensare che i loro antenati, i Vichinghi, furono guerrieri e navigatori. Andarono persino in America, con le loro navi montate in una domenica pomeriggio senza usare un chiodo e dal nome di una scarpiera: “Drakkar”. Hanno sempre avuto la fissa del franchising, togliere il lavoro agli irlandesi apatici e darlo ai pellerossa che costavano meno. Solo vai a spiegare tu ad un Dakota che è sbagliato vivere dentro a delle tendine che in Svezia le trovi solo al reparto bambini, spiega ad un Cherokee il concetto “con un minimo sovrapprezzo un operaio specializzato partirà da Stoccolma al Main e ti monterà comodamente un intero villaggio in legno direttamente a casa tua.” Infatti i nativi americani non apprezzarono l’idea del “fai da te” e li ricacciarono in mare.
E fu così che Marco, assorto dai suoi pensieri estremamente filosofici, non si accorse del ticchettio continuo di due dita sulla spalla da ormai svariati secondi. Dopo il quarto “mi scusi?” Marco si girò con la flemma di un bradipo boliviano convinto che nulla sarebbe mai accaduto di così straordinario nell’angolo dedicato ai tavolini da sei euro e invece, Lei.
Anna non era né bella, né brutta. Né alta né bassa. Né magra né grassa. Né elegante né sciatta. Era solo né. La sua vita era costellata di né. Da adolescente non aveva neppure avuto la possibilità di avere il problema di sentirsi diversa e inadeguata tanto era simile a tutte le altre ragazze medie del mondo. Lei era media. Se la media avesse avuto una percentuale lei stava giusto nel mezzo. Facendo una media di tutte le medie che mediamente stanno nella media, lei era la media assoluta. E a questo Anna ci si era abituata da tempo.
Orfana di padre, con una madre ossessiva e una sorella convulsiva, un lavoro al call center e una storia affettiva alle spalle arida quanto il deserto dei Gobi, Anna aveva finalmente deciso dopo sei anni di andare a vivere da sola ma ancora non aveva detto nulla a casa rimandando all’infinito la decisione per evitare di vedere l’ennesima scena isterica di sua madre che tenta di suicidarsi con le Air Vigorsol, convinta che se uno scoiattolo ne mangia una e scorreggia montagne di ghiaccio, lei con un pacchetto intero sarebbe morta con gli organi interni completamente congelati. Non aveva neppure accennato a quel suo ragazzo, l’unico che avesse mai avuto, con il quale perse la verginità una sera qualsiasi di ottobre, in un parcheggio da Trony, non per merito suo ma della leva del cambio della Smart che è una macchina studiata per altri tipi di prestazioni, basta guardare il libretto. Risultato: una sera buttata al pronto soccorso, sei punti, due antibiotici e chi sé visto sé visto. Una cosa sola aveva che manco lei sapeva di avere: una luce negli occhi che ti perforava l’anima come una punta del dieci per lasciarti un buco sbagliato nel muro della tua vita e che, hai voglia a riempirlo col gesso: si noterà sempre.
Anna fece questo effetto a Marco. “Mi scusi, ho preso la cucina, una libreria, il letto e un tavolo ma non riesco a caricare tutto da sola, non è che per caso mi darebbe una mano lei?”
Marco la osservò come si osserva una mensola storta, buttò un occhio al carrello sofferente sotto un muro di pacchi piatti e senza dire una parola spinse il tutto verso il parcheggio. “Lei è un tipo di poche parole non è così?” disse lei, Marco sbuffava facendo gimkane tra le auto in sosta, “Non è semplice trovare tipi gentili al giorno d’oggi, per fortuna esistono ancora i cavalieri, anche senza cavallo voglio dire, cioè con il termine cavaliere s’intende uno che ha un cavallo è chiaro, ma tipi come lei, mi capisce, che pur senza cavallo fanno i cavalieri non se ne trovano spesso e trovarne uno fa piacere, cavallo a parte. Non so se mi spiego.” Pausa. “Magari lei veramente ce l’ha un cavallo.” Marco girò un occhio solo nella sua direzione, l’altro faceva da navigatore. “Oddio che stupida che sono.” E arrossendo Anna puntò lo sguardo verso l’asfalto bagnato. Lui, guardando la macchina di lei, una Ford Ka, pensò che l’unica frase intelligente pronunciata in tutto quel percorso era “Oddio che stupida che sono.” E non fu l’unica cosa che pensò. Sembrava che i suoi pensieri uscissero dalle orecchie sotto forma di fumo bianco: “Ma questa stronza come pensa di caricare tutta sta roba su una macchina del genere?” Poi si lasciò sfuggire questa frase: “Anche ammesso avesse il portapacchi, non ci possono stare trentadue pacchi su un portapacchi, se ci fosse il portapacchi! Ma il portapacchi non c’è e sarebbe comunque un pacco trasportare questi pacchi!” e si sistemò il pacco. Lo disse talmente ad alta voce che metà del parcheggio, senza rivolgere uno sguardo ai due, annuì con un cenno della testa. Uno alzò anche le sopracciglia in segno di resa davanti ad un’ovvietà. Per Anna fu come sentirsi osservati facendo capolino da un pentolone per cannibali, allora disse con falsa sicurezza. “Beh la pubblicità su quel cartello dice ‘Se fai da te risparmi, Porta tu stesso i mobili a casa. Così puoi godere subito dei tuoi acquisti e risparmiare’, non è cosi?” Marco sbottò “Si ma ci vuole un mezzo adatto al volume di materiale da trasportare altrimenti lo facciamo noi con un sovrapprezzo a partire da ventinove virgola ventiquattro euro, entro quattro giorni a casa tua!” Marco fu tentato di mollala lì e ritornare al calduccio del magazzino ma lei ritirò fuori il trapano con la punta del dieci e perforò nuovamente con lo sguardo il muro della sua resistenza dicendo: “Ed ora che faccio? Non posso permettermi di spendere ventinove virgola ventiquattro euro in più.” Passarono trenta lunghissimi, interminabili, geologici secondi, nel frattempo Marco aveva già stimato il costo del trasporto intorno ai duecentoquarantasei virgola ventiquattro euro ma non disse nulla: stava tentando di mettere il gesso della ragione nei buchi del muro dei suoi sentimenti. Ma si vedevano, eccome se si vedevano. Non era da lui fare colpi di testa. Eppure la frase gli uscì dalla bocca a sua insaputa: “E va bene. Finisco il mio turno alle otto, aspetterò che tutti siano usciti per non dare nell’occhio, caricherò i pacchi sul furgone e glieli porterò a casa sua, le monterò tutti i mobili ma entro mezzanotte devo riportare assolutamente il furgone alla base, se siamo fortunati nessuno lo saprà.” Poi a denti stretti aggiunse “Ma che cazzo sto facendo?” Era troppo tardi. Anna non smetteva più di saltellare e ringraziare, ringraziare e saltellare. “Io, non so proprio come sdebitarmi ah, intesi, lei è mio ospite questo è il minimo, per la cena intendo, faccio tutto io lei non si preoccupi. Adesso che ci penso non ho la cucina in effetti perché è in questo pacco. Allora che si cucina dirà lei? Non si cucina. Ma l’ho invitata a cena e quindi? Oddio come faccio senza cucina? Oh cavoli, qualcosa ci inventeremo non è così?” pausa “Magari i cavoli no.” Marco si era già pentito da un pezzo. Anna anche senza cucina, era già cotta.
Otto e venti, Marco caricò silenziosamente l’ultimo pacco e defilato uscì dal cancello col furgone d’ordinanza eludendo la sicurezza che aveva già iniziato il suo giro.
La nuova casa di Anna non era poi così male: quaranta metri quadrati calpestabili in un condominio prevalentemente abitato da senegalesi e pachistani, dove l’odore di cuscus e verdure mischiato a riso basmati creava nell’aria un profumo acre e antico come le ascelle della Dea Calì. Ma erano tutti molto gentili anche se le esalazioni arrivavano fino al quarto piano. Già, quarto piano. Perché l’appartamento di Anna stava al quarto piano. Senza ascensore. Ecco dove si annidava il male. Alla fine dell’ultima salita, Marco stramazzò sul trentaduesimo pacco irrorandolo di sudore. Anna aveva preso due kebap con patatine e senza convenevoli iniziarono a scartare e rosicchiare, comporre e sbocconcellare, e qui venne a galla tutta la precarietà svedese: mancavano pezzi, viti, incastri e persino istruzioni. Marco non si perse d’animo, si ricordò che venne assunto per la sua provinciale creatività e segando un pezzo di qua, incastrando un pezzo di là ricreò nuovi design dal sapore surreale e grottesco ma il tutto reggeva. Oddio, sembrava di vivere dentro una scenografia di un film espressionista tedesco dove dalla cucina usciva il letto per incastrarsi nella libreria e viceversa ma in fondo era un ambiente divertente. Anna guardò tutta soddisfatta l’opera d’arte astratta che era la sua casetta e poi si lanciò. Timida com’era non lo aveva mai fatto in tutta la sua vita, lei che aveva sempre subito gli eventi senza una dialettica, lei che non osava fare un passo in più per paura di inciampare nella vita, lei che per formulare una frase doveva ogni volta ingaggiare una lotta greco-romana con le parole. Quella sera si lasciò cadere nel vuoto. Col cuore che bussava sullo sterno e nelle tempie buttò li una frase senza pensarci due volte. “Beh, a questo punto, per sapere se il letto reggerà, non è che sia il caso di provarlo prima?” ma nella mente sua risuonavano tutt’altre parole: “penserà che sono una puttana, penserà che sono una puttana.” Che brutti scherzi combina l’ovulazione. Anna per la prima volta dormì nella casetta nuova. Marco non rientrò a casa quella sera.
Ritornare alle undici sul posto di lavoro con tre ore di ritardo e per giunta con un furgone sottratto di nascosto all’azienda, incontrare sul cancello del retro la dirigenza intera impietrita, i colleghi sgomitanti e una trentina di clienti imbufaliti non è una bella cosa. Marco fece appello a tutta la sua flemma e partorì un semplice “Trovato casino.” Dopodiché fece un ellisse con i piedi girando su se stesso e l’Ikea uscì dalla sua vita. Non prima di aver sottratto dal cestone degli sconti un Teddy Bear strabico. “Che noia l’Ikea” pensò. Nessuno osò fermarlo. Anna arrivò da Marco come Supergirl: letteralmente volando, su per giù verso l’una. “Come sto?” disse. Marco la guardò, il Teddy Bear non si capiva dove cazzo guardasse: aveva un filo di trucco, due treccine fatte alla rinfusa, una gonnellina corta e un giubbottino dello stesso colore degli anfibi. “Com’era bella” pensò, la più bella ragazza media che avesse mai visto. Lui, senza parole le diede l’orso guercio, lei fu felice di ricevere quell’improvvisato regalo, del resto non ci si fa troppe domande complicate sul significato delle cose all’inizio di un amore, poi Marco prese le sue guance tra le mani e lei provò un brivido acuto come un dolore che non ricordava più da tempo, come quando suo padre la accarezzò sul viso quel pomeriggio, poco prima di morire. Marco le disse tutto, misurando parola per parola in modo da non procurarle inutili ferite, minimizzando l’accaduto perché in fondo, lui si aspettava di più dalla vita che montare tavolini da sei euro. Anna capì tutto perché era una ragazza intelligente. Troppo intelligente. Fece uno sforzo titanico nel trattenere lo tzunami che stava per travolgere i suoi occhi e resettò tutte le frasi, tutte le parole, tutte le intenzioni, tutte le pause di Marco tranne un insieme di vocaboli che non avrebbe dimenticato facilmente: “Adesso ti prego non farti delle idee che sia stata colpa tua.” “Colpa tua.” “Colpa tua.”
Anna avrebbe voluto morire. Marco voleva andarsene lontano.
Qualcuno li ha visti per strada, tenendosi per mano.

Gli Jasgawronsky Brothers (Diego Carli, Paolo Rozzi & C.) bravissimi a Italia’s Got Talent

Bravissimi e meritatissima la qualificazione degli Jashgawronsky Brothers, gruppo comico-musicale (finto) armeno formato da Diego Carli, Paolo Rozzi e C.) ieri sera alla prima puntata di Italia’s Got Talent 2012. Sono da anni sui palcoscenici non soltanto italiani, in televisione ci sono già passati (anche in formazioni diverse) ma allora perchè li scoprono solo adesso? Mi viene un dubbio: sono quando non se ne può più di porcherie in tivù, ecco, solo allora i soloni del tubo (catodico, ormai raro) si accorgono di quelli davvero bravi? Per la cronaca Diego Carli e Paolo Rozzi, con il nome Diego & Paolo, vinsero il primo premio ed il premio del pubblico al FESTIVAL NAZIONALE DEL CABARET 2005 (Torino). Qualche anno prima, al FESTIVAL NAZIONALE DEL CABARET 1997 (Torino), Diego Carli solista andò in finale e si aggiudicò il Premio Ernst Thole per l’interpretazione più originale.
Alter Bactaer